martedì 13 agosto 2013

Addio, mondo

Non si dovrebbe morire, a quattordici anni; non si dovrebbe pensare di poter morire, a quattordici anni; non si dovrebbe pensare di voler morire, a quattordici anni: a quattordici anni non si dovrebbe nemmeno pensare di dovere morire , un giorno. 
Ma oggi ogni giorno tutti vedono morti vere e morti per finta, tante, indistinguibili, di giovani, di vecchi, di neonati, di non nati, volontarie, involontarie,  subite,  procurate a altri o a se stessi: basta accendere la TV. 
Nella vita s'incontrano mille avversità, si dovrebbe non considerarle insuperabili, lottare per vincerle, confidare nel futuro, specialmente se sono le prime, specialmente se si è giovani, molto giovani.
Chissà se a quattordici anni si sa già di essere omosessuali. Forse se non se ne parlasse continuamente, a quattordici anni magari non si saprebbe nemmeno dare un nome a qualcosa che si intuisce ma non si conosce, forse i coetanei nemmeno noterebbero la diversità. Ma oggi di omosessuali tutti ne parlano, oggi, pare, a quattordici anni si deve fare esperienza e  per forza sapere da che parte si sta. 

Magari uno non è omosessuale ma solo balbuziente e i compagni lo prendono in giro per il suo balbettare, magari pensa di farla finita per questo, magari pensano subito ad una legge contro la  balbusfobia. O magari è preso in giro solo perché non gioca bene a pallone o a briscola, soffre di ludofobia come altri soffrono di claustrofobia, agorafobia, omofobia (ha paura del gioco come altri hanno paura dei luoghi chiusi o aperti o degli omosessuali) ed egli si sente diverso e vuole lasciare questo odiato mondo dove tutti adorano giocare a pallone o a briscola e qualcuno penserà ad una legge contro la ludofobia. Magari non è omosessuale e s'innamora di una ragazza e questa nemmeno lo guarda o magari per un po' lui le va ma poi se ne stanca ed egli pensa che senza di lei non valga la pena di vivere. Ci sono mille motivi  perché si possa pensare che non ne valga la pena, ce ne sono diecimila perché si possa pensare che la valga. Un tempo per il credente era peccato il suicidio: magari si finiva di soffrire in questa terra ma per cominciare a soffrire all'inferno. Oggigiorno non esiste più né paradiso né inferno, non si sopporta nulla nella speranza di un bene futuro e tutto si può fare senza temere un futuro castigo: se qualcosa non va meglio farla finita, senza speranza e senza timore. Forse non servono leggi contro le varie fobie (contro le paure?) ma insegnare ad accettare le diversità, sopratutto da parte dei diversi. E invece sembra che ci sia la tendenza opposta: neri, ebrei, donne, omosessuali si vogliono non uguali agli altri ma più uguali, più tutelati dalla legge, diversi.

sabato 10 agosto 2013

Tre gradi

La perfezione non è di questo mondo, ma tre gradi di giudizio assicurano la giustizia più giusta possibile, si dice. 
Magari basterebbe un solo grado di giudizio, se il giudice fosse assolutamente preparato e giusto. Ma anche i giudici sono uomini o donne e possono sbagliare: opportuno quindi un giudizio d'appello e sottoporsi al giudizio di giudici sperabilmente più preparati e giusti dei precedenti. Ma anche questi sono uomini o donne e possono commettere qualche errore e l'operato dei giudici di primo e secondo grado va sottoposto al giudizio dei giudici di terzo grado che dovrebbero cassare i giudizi precedenti se sono viziati da  errore.
Tutto questo fa sì che le cause durino molto tempo, che giudici ed avvocati giustifichino la loro esistenza e il loro reddito, ma non garantisce una giustizia giusta. Se il primo giudice è un somaro la prima sentenza sarà sbagliata, ma se è un somaro anche il secondo giudice che conferma quella sentenza e il terzo che la rende definitiva la sentenza non diventerà solo per questo giusta. È sperabile che almeno uno dei tre sia giusto, ma non è garantito. Se il primo giudice non si preoccupa molto di essere giusto pensando che se sbaglia rimedierà il secondo e lui non dovrà in nessun modo rispondere del suo errore è da ritenere che non gl'importerà molto di essere giusto. E così pure per il secondo mentre il terzo magari starà più attento perchè più nessuno può rimediare al suo errore ma sa che se anche sbaglia a rimetterci sarà solamente il condannato e lui potrà continuare a godersi il suo stipendio con al massimo qualche rimorso di coscienza, se ne ha una. Evidentemente è più improbabile che in un collegio giudicante tutti siano somari ma non è escluso che possa esserlo la maggioranza.
Magari potrebbe bastare un solo grado di giudizio se quel giudice si assumesse tutta la responsabilità che gli spetta e ne rispondesse di persona in caso di errore: il condannato ingiustamente lo cita presso un altro giudice che può condannarlo alle stesse pene ingiustamente inflitte e effettivamente patite in beni e libertà. 

Sicuramente i magistrati diranno che così si attenta alla loro indipendenza, che un giudice nel timore di sbagliare non emetterà sentenze: anche un ingegnere può temere di dovere pagare se crolla un ponte da lui progettato, ma se per questo decide di non progettare più niente cambia mestiere. Lo stesso dovrebbero fare i giudici senza pretendere di essere retribuiti per quello che non fanno.

giovedì 8 agosto 2013

Cassazione

Non mi pare che questa faccenda della Corte di Cassazione abbia giovato al prestigio, a parer mio già piuttosto basso, della magistratura. Magari è ineccepibile "in punto di diritto" e dal punto di vista partigiano, ma dal mio punto di vista direi che è penosa. Già all'apparire di quei cinque signori istintivamente non mi rallegrava l'idea che il destino ultimo di noi italiani potesse dipendere da quel quintetto: come quando si vede per la prima volta qualcuno e ancor prima che apra bocca lo si ritiene simpatico o antipatico, degno o indegno di fiducia. È un'impressione quasi sempre passeggera, soggetta a verifica e a cambiamento, ma conta. Questa volta quella prima impressione è stata confermata nel sentire l'intervista rilasciata dal presidente del collegio giudicante, a prescindere da quello che diceva: un parlare poco accurato, quasi dialettale (u capo, loggica). Ma quello che più mi turba è quello che ha detto. Dalla lettura della sentenza ho appreso con stupore che i giudici d'appello sono degli incopetenti che non conoscono nemmeno la legge e comminano cinque anni di interdizione dai pubblici uffici quando, a detta della Cassazione, la legge per il reato attribuito all'imputato ne prevede al massimo tre.
Dall'intervista apprendo che non si può condannare uno "perché non poteva non sapere" ma solo perché certamente sapeva in quanto Tizio, Caio e Sempronio testimoniano in tal senso. Ammettendo pure, come fanno i benevoli, che il giudice non si riferisse al caso specifico ma parlasse da professore di diritto di un caso teorico il problema rimane: passando dalla teoria alla pratica i giudici di secondo grado hanno avuto conferma da Tizio, Caio e Sempronio che l'imputato sapeva perché glielo avevano detto o no? Se tali testimonianze ci sono l'imputato è stato condannato perché a detta dei testimoni sapeva, se non ci sono è stato condannato perché "non poteva non sapere". E a detta del giudice di Cassazione questo non può essere. Non so cosa esamini la Cassazione, ma se i giudici di primo e secondo grado non si sono comportati come nella lezione teorica del professore di diritto avrebbero dovuto comportarsi penso che il giudice di Cassazione avrebbe dovuto cassare le loro sentenze. O no?


giovedì 1 agosto 2013

Ieri e oggi


Cause della crisi e caduta dell'Impero romano d'Occidente 
 (da VEDI)
Le cause interne furono varie: l'anarchia militare e i conflitti interni tra i vari pretendenti al trono nel III e nel IV secolo, che distrussero l'unità imperiale; la crisi economica, con l'inflazione e la pressione fiscale (dovuta alla crescente spesa pubblica per mantenere l'esercito e la burocrazia imperiali) che salirono a livelli molto alti ed i commerci che diminuirono sempre di più, indebolendo notevolmente la struttura economico-produttiva ed accentuando la disuguaglianza sociale nei territori dell'impero; lo stato di abbandono e spopolamento di città e campagne, che costrinse inoltre molti imperatori ad apporre leggi che anticipavano il Medioevo (come l'obbligatorietà dei cittadini a svolgere il mestiere dei loro padri); la perdita del carattere romano che secoli prima aveva formato soldati disciplinati e induriti da mille battaglie, capaci di conquistare tutta l'area mediterranea, ma che durante il periodo imperiale era progressivamente svanito, al punto che gli stessi comandanti delle legioni preferivano arruolare i loro soldati nelle province o fra i barbari (indifferenti alla tradizione dell'unità dell'Impero) piuttosto che fra le genti italiche.


Mutatis mutandis, sembra si parli dell'Italia di oggi: crisi economica, con l'inflazione e la pressione fiscale (dovuta alla crescente spesa pubblica per mantenere la burocrazia), i commerci che diminuiscono sempre di più,  la perdita del carattere italiano progressivamente svanito, al punto che gli stessi presidenti del consiglio preferiscono arruolare i loro ministri fra stranieri naturalizzati (indifferenti alla tradizione dell'Italia) piuttosto che fra le genti italiche.

Non se n'abbia la signora Kyenge: 
lei è felicissima di essere italiana, ma io non sono entusiasta di essere cittadino di un paese razzista che non tutela le minoranze ma le privilegia, discrimina a loro favore. La signora mi è anche simpatica, ma dubito che se non fosse nera e donna sarebbe ministra, pur con tutte le altre sue qualità e competenze. Mi piace anche per come ha reagito alle offese. Non sono più gravi di altre analoghe fatte ad altri, ma c'è sempre la storia del razzismo: se dico cocomero a lei è o è ritenuto più grave che se lei lo dice a me, a prescindere dalla somiglianza.
Non capisco però come possa sentirsi italiana: se - come sostiene - è cittadino italiano chi nasce in Italia chi nasce nel Congo é cittadino congolese; essere l'uno e l'altro o poter scegliere secondo convenienza mi pare un privilegio da cui la stragrande maggioranza degli italiani è esclusa per essere nata e vivere Italia.

Considerare italiano chiunque per caso o per calcolo si trovi a nascere su territorio, nave o aereo italiano è una violenza alla nazione italiana:  anche se ha  la stessa cittadinanza può non essere considerato connazionale.
Non si tratta di razzismo, nulla c'entra il colore della pelle, l'aspetto fisico. Nazione è una comunità avente la stessa origine territoriale, storia, lingua e cultura (vedi): vi sono Stati plurinazionali e altri uninazionali e  il nostro è uno Stato uninazionale, dove c’è un’omogeneità di tradizioni, di costumi. Savalguardare l'identità nazionale non può essere considerato razzismo e chi vuole essere cittadino italiano dovrebbe rispettarla: non sempre avviene, mai solo per nascita nel territorio.