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Me mama dixea
"Ah signor dae texe! Gaveo un poche de noxe e i sorxi m'in ga magnà mexe"
"Ah Signore del sottotetto, avevo un po' di noci e i topi me ne hanno mangiate mezze"
Così si lamentava quando qualcosa non andava come voleva.
"Finiso de broar su"
"finisco di lavare i piatti" Chissà se si dice ancora, magari usando la lavastoviglie.
De chi proprio non podea soportare me mama dixea
"Mai pì gh'in nassa de sta bruta rassa"
Mai più ne nascano di questa brutta razza
"Ndemo a pisacan"
In primavera era abbastanza normale: andiamo a tarassaco. C'erano i campi e nei campi i "pisacan". Mi pare ci siano tuttora, ma chissà se si va ancora a raccogliere "pisacan".
"Xe ndà xo de raboto"
Quando la parte posteriore della scarpa si piegava e non teneva più il tallone al suo posto. Capitava spesso, specialmente con le scarpe ereditate dai fratelli maggiori ,,,
Se dixea
"El sa da brustolin"
e Brustoeon vendeva geeati. Capitava spesso, usando la stufa a legna e usando pentole non particolarmente sofisticate, che quel che si cucinava prendesse un po' sapore di fumo, di bruciato, "savesse de brustolin". Capitava anche che tale sapore non fosse del tutto sgradito, perfino che fosse gradito
"El xe na bronsa cuerta"
Una brace coperta di cenere. Un persona ipocrita, che sembra brava e buona ed è tutt'altro. Uno bronsa cuerta sembra inoffensiva ma se la tocchi ti brucia: decisamente non era un complimento.
"Poro can, poro gramo"
Poverino, poveretto e poteva essere offensivo o amorevole e altro: di pendeva tutto dal tono con cui si diceva. Letteralmente: povero cane, povero gramo misero, meschino). Frmminile: pora cagna, pora grama. Ma si diceva anche pora bestia, poro omo, pora dona. Poro (povero) da solo non si usava, si diceva poareto e poareta ma anche poro stupido, poro cretin, poro semo, poro diavoeo, eccetera.
"Fiol d'un can"
Figlio di un cane, ma quasi mai era o era percepito come un'offesa. Lo diceva il padre o la madre al figlio e naturalmente se era o no offensivo dipendeva dal tono e dal contesto. Certo che un foresto lo poteva prendere male.
Me nono dixea
"vien do daea teda"
Dizione campagnola, io avrei detto "vien xo daea texa", scendi dal fienile. Il fienile era un posto pericoloso e di regola era vietato salirci senza validi motivi. Sarà stato per questo che io ci salivo quasi tutti i giorni con la scala a pioli.
"varda che toeo ea scuria"
"Attento che prendo la frusta". La minaccia era frequente, ogni volta che non ci comportavamo secondo le regole, ma non ricordo che alla minaccia sia mai seguito il fatto.
"varda che ciapo ea viscia"
"Guarda che prendo la verga" Come con la "scuria", solo minacce. La "scuria" aveva il manico di vimini intrecciati e una striscia di cuoio intrecciato legata in cima, la "viscia" era qualsiasi semplice sottile ramo flessibile che lasciava il segno dove colpiva.
"Iii .... Ooo" al musso
El musso capiva sicuramente sti do comandi, ma forse anca qualche aktro. "Iii", va: e partiva; "Ooo", fermate: e se fermava. In latino "i" é "va", imperativo di ire, andare. "O" penso sia solo un suono molto diverso da "i".
"No ve butare sui marei"
Non buttatevi sui mucchi di fieno. Quando era momento mio nonno "segava la spagna", falciava il trifoglio. Era un campo, dietro il cimitero. Non era molto, solo quanto poteva bastare per due mucche e un asinello. Ma doveva usare la falce per una lunga giornata, solo fermandosi di tanto in tanto "par uarla con la piera" che teneva nell'acqua, in corno di vacca attaccato alla cintura. Si fermava, estraeva la pietra per affilare dal corno, la passava sulla lama con movimenti regolari, la riponeva nell'acqua e tornava a tagliare l'erba. Ad ogni modo quando lui tutto solo aveva finito sul campo c'erano file di erba tagliata che le zie sparpagliavano per farla asciugare al sole. Poi alla sera perché non si bagnasse veniva raccolta in mucchi, in invitanti "marei" di fieno sui quali tuffarci. Qualche tuffo magari si faceva, ma era severamente vietato: rovinava il lavoro della giornata.
Aea stasion el dixea
"pianxì, pianxì putei che ea mama ve da i schei"
Alla vecchia stazione delle FerroTramvieVicentine, davanti a Campo Marso, c'era un ambulante che vendeva croccanti e altri dolciumi nella sala d'attesa e poi anche sui treni in attesa di partire. E per vendere i suoi prodotti si rivolgeva non a chi li pagava ma a chi li desiderava. "Piangete, piangete bambini che la mamma vi da i soldini": la cosa funzionava e lui vendeva.
D'inverno se dixea
"Femo na slisegaroea"
Le strade del paese, tranne forse la Vicenza-Bassano, non erano molto trafficate e ci si poteva tranquillamente giocare. Per fare una slisegaroea bastava gettare un secchio d'acqua ai margini della strada per avere il mattino seguente un tratto ghiacciato su cui "slisegare".
Se dixea
"Oh Maria Vergine Santisima de Monte Berico"
Ogni occasione era buona per dirlo con ogni tono possibile: dolore, piacere, gioia, tristezza ...
I dixea
"Pedaea, pedaea che te ciapi la rua davanti"
"D.O.M, Done e Omini Marideve"
Stava scritto sulla facciata di qualche chiesa per Deo Optimo Maximo (A Dio, il più buono, il più grande),
I dixea
"Coe de dedun"
Dizione campagnola per "code di digiuno", noi solo "coe", code. Sono le radici amare, una varietà di cicoria dal sapore amarognolo, seppur unico. Sono decenni che non ne mangio. Penso si mangiassero in quaresima:
Me xie dixea
"Doman femo ea broa, doman femo ea lisia"
"Domani facciamo il bucato".Ma non era una cosa semplice come oggi. La broa non si faceva molto spesso e quando si faceva era un giorno speciale, molto impegnativo. Le robe si lavavano frequentemente, ma quando si faceva la broa si lavavano anche le lenzuola, i nisoi. A quanto ricordo, quello che si doveva lavare veniva messo in un capace mastello e coperto con un telo. Sopra il telo si metteva la "senare", la cenere, e sopra vi si versava acqua bollente (da cui "broa") e si formava la liscivia (da cui "lisia"): broa e lisia erano termini solitamente equivalenti. In casa non mancava la "senare" dato che non mancava il focolare e il fuoco a legna, unico modo possibile per avere il fuoco. Si cominciava presto, perché a queste prime operazioni seguiva il lavaggio vero e proprio, poi la risciacquatura e finiva con tutta la broa, tutta la lisia, tutto il lavato steso al sole su corde sostenute da pali.
Me popà dixea
"No'l xe farina da far ostie"
Non è farina da far ostie, non è uno santo e pio, uno buono e servizievole con cui è facile convivere
Scarpe, scarpe:e, scarpie no e gera gnanca parenti
Scarpe, croste agli occhi, ragnatele non erano nemmeno parenti
... e a un serto punto el piron xe deventà forchetta
Ad un certo punto "piron" è diventato "forchetta". dal dialetto all'italiano
Me mama dixeva
"Pitosto che roba vansa crepa pansa"
Negli anni 40 nessuno pensava di mettersi a dieta dimagrante e quando c'era da mangiare si mangiava.
Nessuno diceva "Che beo magro che te si" per fare un complimento, anzi.
Nelle parole in dialetto la lettera elle è qualcosa di ambiguo. Tutti sanno che c'è ma normalmente non si pronuncia o suona come una breve e. Ma nel dire la stessa parola capita anche di pronunciarla come elle: non c'è regola fissa, dipende dal momento, dalla persona on cui si parla, da come viene da dirla.
"El me ga bravà"
Penso che non siamo molti a ricordare cosa si voleva dire
Serve traduzione?
https://docs.google.com/spreadsheets/d/1BwljkArdJVXATgGUGOF-wpKAXVU7TGi-lSHpVKJ3m2c/edit?usp=sharing